Le Origini
L’Ipnotismo è noto all’uomo da oltre 4000 anni. Ci sono evidenze di pratiche, che oggi chiameremo “ipnotiche” nella storia dell’antica Cina, degli Egizi, dei Greci, dei Romani.
Alcuni riferimenti mitologici (es. la fascinazione di Medusa) ci fanno comprendere come già gli antichi conoscessero e praticassero tecniche ipnotiche.
Anche oltre oceano era praticata l’ipnosi. Nelle culture Atzeche e pre-Colombiane ricorrono riferimenti a tali pratiche.
Ma solo nel 1700 questa pratica ebbe la sua grande espansione in Europa, a scopo terapeutico, grazie ad alcuni medici. Nel 1700 infatti, Mesmer, medico e filosofo, diffuse il “mesmerismo” come pratica terapeutica.
Mesmer sosteneva che lo stato ipnotico fosse indotto a causa di un “fluido magnetico animale” capace di scorrere dall’operatore al soggetto, in grado di ripristinare l’equilibrio ed il benessere nelle persone.
Di questo periodo, conserviamo ancora ora l’errata convinzione della figura dell’ipnotista come un soggetto dotato di particolari doti (il fuido) capace di imporre la sua volontà su soggetti passivi.
La nascita dell’ipnosi moderna
Il termine ipnosi viene introdotto solo nel 1842 ad opera di James Braid, medico chirurgo, che lo definì come “uno stato particolare del sistema nervoso, determinato da manovre artificiali”.
Ci si allontana così dalla magia e dal misticismo per un approccio più scientifico che darà il via allo studio ed all’applicazione scientifica di tale tecnica.
Braid ci libererà dal peso del ruolo dell’ipnotista onnipotente e magico, dimostrando che tutti gli effetti prodotti in stato d’ipnosi erano conseguenza di un preciso stato psicofisico dell’ipnotizzato.
Egli ipotizzò che il rallentamento dei movimenti respiratori osservati nell’ipnotizzato generasse il sonno ipnotico, come conseguenza di una decarbonizzazione imperfetta del sangue.
L’età dell’oro dell’ipnosi in quel periodo storico è con Charcot, che la utilizza prevalentemente nelle nevrosi.

Le evoluzioni successive
Nel 1933 Hull pubblica Ipnosi e suggestionabilità: si apre così la vera e propria storia sperimentale dell’ipnosi.
Nel periodo della prima e seconda guerra mondiale, l’ipnosi riprende dignità scientifica in seguito ai risultati importanti ottenuti sui feriti e traumatizzati di guerra – oltre che come mezzo di anestesia rapida -, adatta nei casi di urgenza.
Al termine della guerra inizia a farsi strada il filone di ricerca sul tema dell’ipnosi come strategia di controllo del dolore nel parto.
Successivamente, Milton Erickson (1902 – 1980) – uno dei più autorevoli teorici dell’ipnosi clinica e della cosiddetta “psicoterapia breve” del secolo scorso -, avrà il compito di riportare l’ipnosi in un contesto medico-scientifico, dimostrando che la trance ipnotica è qualcosa di fisiologico e spontaneo che si verifica nel corso della giornata di ogni persona e che l’utilizzo più moderno dell’ipnosi non è legato esclusivamente alla cura dei problemi psicologici e della nevrosi.
Di qui in avanti si apre la strada allo studio dell’ipnosi attraverso le neuroscienze e la straordinaria scoperta dei neuroni a specchio – dei quali parleremo più avanti -la quale sembra avvalorare la scoperta di Erickson e le caratteristiche dell’ipnosi.
Milton Erickson sviluppò una forma di ipnoterapia chiamata ipnosi ericksoniana, che permette di comunicare con l’inconscio del paziente.
Questo tipo di ipnosi, molto simile ad una normale conversazione, che per questo può spesso fare uso di metafore e di un linguaggio suadente e poetico, induce, rilassando il paziente, ad una sorta di trance ipnotica del soggetto, cioè uno stato a metà tra il sonno e la veglia.
Ciò è visibile quando il paziente presenta indicatori di trance come occhi semiaperti o chiusi, lievi stati di alterazione della coscienza (come leggere allucinazioni “semplici”, in genere suoni o colori, simili a sogni o percezioni del dormiveglia), rilassamento dei muscoli, sospiro rallentato, possibile amnesia del periodo di trance, analgesia, leggero sonnambulismo, ecc…
Così facendo, il terapeuta può suggerire delle piste di soluzione all’inconscio, aggirando le resistenze e la rimozione che la coscienza opporrebbe al cambiamento: se sentendo la storia o ascoltando le parole del terapeuta il paziente manifesta alcuni segni di trance allora si è nelle condizioni necessarie per intervenire.
L’ipnosi ericksoniana si basa su questi assunti teorici:
- il paziente è un individuo unico, e pertanto unico sarà l’approccio utilizzato per curarlo,
- l’inconscio di ciascun individuo è pieno di risorse per risolvere i problemi del vivere quotidiano. Le persone sono considerate capaci di autoguarirsi ed autocorreggersi se riescono a sfruttare tali strumenti,
- qualche individuo ha bisogno di aiuto per risolvere i propri problemi e guarire dai propri sintomi; per poterlo fare, a volte, una persona deve prima imparare delle nuove abilità o deve orientare la propria attenzione verso nuovi modi di vedere o di pensare le cose,
- i sintomi ed i problemi comportamentali sono frutto di una inadeguata relazione tra mente conscia e mente inconscia,
- l’attività psicoterapeutica è principalmente orientata alla risoluzione dei sintomi o dei problemi comportamentali portati nel setting dal paziente.
Erickson, dunque, credeva che ognuno avesse una propria personale realtà autocostruita e che entrarvi dentro e modificare le percezioni del paziente, parlando direttamente con il suo inconscio, fosse l’unico modo di cambiarla.
Ad esempio, pur essendo scettico verso i fenomeni religiosi e paranormali, egli assecondava il paziente se ciò serviva, poiché le convinzioni dell’individuo non andavano contrastate apertamente o ridicolizzate, ma aggirate; spesso, per far ciò, faceva uso di storie suggestive.
Le prassi terapeutiche di Milton Erickson vennero studiate, analizzate e riprodotte secondo le dinamiche di un processo di psicoterapia veloce (il modellamento) da Richard Bandler e John Grinder, i co-fondatori della PNL (Programmazione neurolinguistica), i quali realizzarono un particolare modello di linguaggio da essi denominato, in onore dello psicoterapeuta statunitense, “Milton Model”.

Il cervello allo specchio
Attraverso studi condotti prima sulle scimmie e poi sull’uomo è stato possibile mostrare come nelle aree cerebrali frontali determinati neuroni motori (che si attivano, dunque, durante l’esecuzione di un movimento) reagiscano anche alla visione di un atto motorio compiuto da un altro essere umano. Non solo. Alcuni di questi neuroni, nell’osservatore, si attivano semplicemente quando è stata riconosciuta l’intenzione di movimento del soggetto osservato: per esempio quando, guardando una tavola da sparecchiare, scorgo una mano in corrispondenza delle vettovaglie ed ipotizzo, senza bisogno di esserne consapevole, il movimento che verrà effettuato.
Dopo successivi studi è stato possibile identificare varie aree, nel cervello umano, che fanno parte del “circuito specchio”.
ll sistema specchio nell’uomo.
I neuroni specchio permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri.
Quando osserviamo un nostro simile compiere un particolare gesto si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione.
In pratica – grazie alla presenza di questi neuroni particolari- possiamo imparare osservando e capire le intenzioni di chi ci sta davanti solo con un colpo d’occhio.
Oltre a rappresentare un’interessante chiave di lettura per lo sviluppo del linguaggio, questa nuova definizione di neuroni specchio ha riportato in auge il concetto di empatia.
La comprensione delle emozioni altrui potrebbe, infatti, essere spiegata attraverso un meccanismo neurale di questo genere che ne renderebbe la decodifica istantanea, senza alcuna produzione di uno sforzo cognitivo.
Data questa capacità cerebrale innata di decodificare gli stati mentali altrui e di influenzarli attraverso il linguaggio e le espressioni, sorge spontaneo chiedersi quanto sia vasta la nostra sfera di influenza.
Probabilmente la risposta è: dipende dal contesto.
Sarebbe infatti impensabile dire ad un bimbo appena caduto “smetti di provare dolore” aspettandosi di sedare tutte le sue lacrime all’istante.
Negli anni quaranta era invece stato osservato che i soldati, durante la seconda guerra mondiale, riuscivano a percorrere lunghi tratti sotto il costante pericolo del fuoco nemico, pur presentando gravi ferite.
L’ambiente di guerra faceva dimenticare al loro cervello il dolore fisico, attivando alcuni circuiti oppioidi endogeni (deputati alla modulazione del dolore) per preservare un bene più prezioso, la loro stessa vita.
Anche senza guardare a situazioni così estreme, si possono trovare in letteratura esempi eclatanti in cui il semplice contesto ha influenzato l’outcome di una terapia in atto.
Il contesto fondamentale che possiamo ritrovare in ambito terapeutico è rappresentato dalla relazione tra il terapeuta stesso (sia esso medico, fisioterapista o psicologo) ed il paziente.

L’induzione ipnotica ed il cervello
L’ipnosi, come strumento utilizzato nella relazione terapeutica, è stata esplorata fin dai primi anni sessanta attraverso studi elettroencefalografici (EEG).
L’EEG è una tecnica di registrazione non invasiva dell’attività elettrica extracorticale spontanea.
Guardando i principali ritmi cerebrali, rappresentati dalle onde alfa, beta, teta e delta, l’ipnosi ha potuto emanciparsi dalla definizione di semplice condizione simile al sonno.
I principali tipi di onde cerebrali del ritmo sonno-veglia
È stato possibile ritrovare alcuni possibili marcatori dello stato ipnotico in alcuni particolari gruppi di onde non presenti durante il sonno profondo.
Ad esempio, già da molti anni è stata confermata una correlazione tra la maggiore presenza di onde alfa in entrambi gli emisferi e la tendenza alla suggestionabilità, indicando come questo ritmo possa essere un’impronta dello stile cognitivo delle persone abili nell’avere esperienze ipnotiche.
Un dato interessante presente in letteratura dimostra che la regione parieto-temporale destra dei soggetti più suggestionabili presenta una maggiore attività elettrica rispetto alla sinistra, al contrario dei soggetti meno suggestionabili.
Utilizzando, però, un’induzione ipnotica indiretta (di stampo ericksoniano), la stessa preponderanza destra nel segnale elettrico può essere registrata nei soggetti a bassa suscettibilità, mostrando una fondamentale importanza dell’area associativa parieto-temporale nell’induzione ipnotica.
Gli studi più recenti sui correlati neuroanatomici dell’ipnosi provengono dalle tecniche di imaging cerebrale moderne basate sul flusso sanguigno (fMRI – Risonanza Magnetica Funzionale –, e PET – Tomografia ad emissione di Positroni – ).
L’idea alla base di queste tecniche è che le aree più attive riceveranno un maggiore afflusso di sangue e verranno così visualizzate.
In un recente esperimento è stato mostrato come sia possibile modulare il dolore grazie all’ipnosi in pazienti affetti da fibromialgia.
I risultati hanno mostrato come, in seguito a suggestioni ipnotiche di analgesia, una riduzione soggettiva di dolore sia stata accompagnata da attivazioni cerebrali elevate a livello di diverse aree, tra cui della corteccia cingolata anteriore, dell’insula anteriore e posteriore, del cervelletto e della corteccia parietale inferiore.
Ulteriori studi hanno posto l’importanza, durante la suggestione ipnotica, del corpo calloso, ovvero la principale struttura cerebrale responsabile dello scambio di informazioni inter-emisferico.
La parte rostrale anteriore del corpo calloso infatti, è deputata alla connessione tra le cortecce prefrontali di entrambi gli emisferi.
Queste aree sono generalmente coinvolte nello spostamento dell’attenzione, avvalorando l’ipotesi che lo stato ipnotico sia concepibile come una modificazione transitoria della capacità attentiva del soggetto (spostamento dall’esterno all’interno).

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